AZIONI DIRETTE E VIOLENTE NELL’ATTIVISMO ANARCHICO ANTISPECISTA

 

Il ricorso ad azioni dirette e violente nella lotta anarchica e antispecista è un argomento tanto sensibile quanto vitale da affrontare.
Il nostro collettivo, reduce da un interessantissimo dibattito con persone che militano in questo senso e sostengono la funzionalità di questo tipo di approcci, arricchito dalla conversazione, si è deciso a scrivere questo articolo.
Se per azione diretta intendiamo in senso esteso qualsiasi azione di carattere individuale o collettivo volta a un mutamento politico-sociale senza ricorrere alla delega ad una istituzione, stiamo parlando di una componente filosofica dell’azione anarchica irrinunciabile, incontestabile e basilare in quanto l’anarchia riconosce giustamente nel sistema di delega un processo che non può accogliere le istanze del popolo, ma serve esclusivamente al mantenimento del potere e del sistema di oppressione statalista.
Il concetto però è talmente ampio che per le finalità di questo articolo dobbiamo necessariamente fare una distinzione e restringere quella definizione solo a quel tipo di attività che prevedano azioni dirette verso chi perpetra l’ingiustizia contro cui ci battiamo (siano esse cose, persone o istituzioni) e/o a diretto vantaggio di un singolo individuo o più individui soggetti a quell’ingiustizia.

Anche restringendo il campo in questo senso, stiamo comunque parlando di atti molto diversi tra loro che possono essere ad esempio: la liberazione fisica di animali detenuti, il sabotaggio, il danno economico/patrimoniale, fino ad atti definibili come “terrorismo” come l’intimidazione, minacce fisiche (anche di morte) e atti di violenza verso persone.
Ogni azione diretta andrebbe analizzata singolarmente, in maniera approfondita, cosa che ovviamente non può essere fatta in questo scritto che non ha tra i suoi scopi nemmeno quello di dividere la lavagna in due e fare la lista delle azioni buone e quella delle cattive, ma si limiterà solo ad analizzare gli aspetti pratici e politici (non etici) di questo tipo di azioni.

Riteniamo che ogni azione attivista abbia sempre un duplice aspetto: quello pratico e quello politico (anche definibile come simbolico o di propaganda). In base alle ripercussioni di un’azione in questi due ambiti si può formulare un giudizio sulla sua efficacia. Chi a questo punto già storce il naso e pensa che ogni azione sia valida purché “si faccia qualcosa” a nostro avviso non ha ben chiaro nemmeno il concetto di attivismo e questo rappresenta un problema enorme per la causa. Agire senza pensare alle conseguenze pratiche e politiche è semplicemente assurdo. Strategia e obiettivi sono fondamentali e dovrebbero essere la base di qualsiasi azione.
In parole povere se alla tv nazionale qualcuno parlasse di antispecismo in termini di “amiamo gli animali perché sono pucciosi”, in alcun modo questo potrebbe essere visto come un vantaggio o un progresso dell’azione antispecista, anzi. Quindi possiamo anche mettere da parte qualsiasi inutile “galateo garantista” e iniziare a sviluppare un serio giudizio su cosa sia utile e cosa sia dannoso fare.

La liberazione diretta di un animale segregato merita un discorso a parte: si tratta, possiamo dire, della forma più alta e diretta di attivismo antispecista che va al cuore del problema dell’individuo che ne è protagonista facendo cessare il suo dolore, il suo inferno ed evita la sua morte. Quest’azione ha quindi un evidente lato pratico soprattutto se si parla di animali selvatici che possono essere messi direttamente in libertà. Detto questo, l’aspetto pratico è ovviamente circoscritto agli individui che vengono liberati e all’eventuale danno economico/strutturale subito dalle aziende connesse alla detenzione dell’animale.
È palese che, al di là della liberazione dell’individuo, qualsiasi altra azione diretta che si intraprenda non ferma in alcun modo la catena di schiavitù, torture e morte che attanaglia gli animali. Oltretutto solo in rarissimi casi tali azioni creano un danno importante alle imprese colpite e, anche quando questo avviene, le imprese riparano i danni o, se non possono, altre prendono il loro posto.
Questo perché chiaramente le aziende di cui parliamo e coloro che ci lavorano, che ne fanno parte, sono solo dei meri esecutori materiali di un mandato che arriva da altri soggetti ovvero dalla maggioranza della popolazione attraverso l’acquisto diretto di prodotti, ignoranza o anche semplice disinteresse.
Il lato pratico di queste azioni quindi, ribadendo l’indiscutibile valore intrinseco della liberazione diretta di uno o più individui, è molto limitato.
Qual è allora il valore politico?

Di solito chi sostiene queste forme di azione (dal sabotaggio alla minaccia, fino alla violenza personale) ritiene che l’impatto politico sia forte perché si tratta anche di atti dal valore simbolico, attuati contro un simbolo di oppressione e quindi anche di ispirazione per altri.
Eppure non abbiamo mai sentito di una persona che abbia capito l’antispecismo perché le è giunta la notizia di galline liberate o di macelli fatti chiudere. Neppure tra le fila di coloro che sostengono e attuano queste azioni.
La stragrande maggioranza degli antispecisti e delle antispeciste hanno abbracciato la causa perché hanno ricevuto un’informazione, magari parlando con qualcuno, leggendo un libro o un opuscolo, guardando un documentario, ecc.
Oltre quindi ad avere un limitato valore pratico, oltre a non aggiungere nessuno alle fila dell’attivismo, oltre a essere un’attività estremamente impegnativa a livello di rischi ed energie spese (che potrebbero essere impiegate altrimenti), in realtà le azioni dirette e violente non hanno spesso nemmeno un valore simbolico.
Il perché è facile da spiegare: i simboli non risiedono in chi o in cosa li rappresenta ma sono un’idea, un concetto che risiede nelle menti di chi li vede come tali. Un re non è re in quanto tale, ma solo perché viene percepito come re da una moltitudine di persone. Sono loro a renderlo re così come sono loro a dargli il potere di re. Se io volessi distruggere il re, come simbolo, di certo non sarebbe saggio ucciderlo perché quel simbolo che voglio eliminare non risiede nella persona fisica che è re in quel momento. L’unico modo di farlo è quindi colpire dove davvero quel simbolo risiede, cioè nella testa della gente che considera quella persona un re. Solo demolendo quell’idea qualcuno può “uccidere IL re”, altrimenti sta solo uccidendo una persona che in quel momento è UN re. Infatti uccidendo un re si ha come unico risultato la creazione di un altro re, mentre l’assassino probabilmente finirà in galera con il plauso di una minoranza assolutamente inascoltata. Distruggendo l’idea di re, invece, chiunque indossi una corona sarà solo un cretino con in testa una corona.
Ancora più grave: paradossalmente se io uccido fisicamente un re, questo sarà considerato un gesto simbolicamente giusto solo ed esclusivamente da coloro che già la pensano come me, mentre sarà percepito dal resto delle persone come un’azione insensata e violenta che le allontanerà dalle mie ragioni, soprattutto se il mio gesto è esposto a una propaganda di regime.

Esiste lo stesso problema anche nell’anarchia non antispecista che vede spesso i suoi sostenitori e sostenitrici vivere in una bolla completamente scollegata dalla realtà in cui esistono solo da una parte il potere da distruggere e dall’altra coloro che lo vogliono distruggere, di nuovo dimenticando perché quel potere esista, dove stia la radice del problema e ignorando completamente il resto delle persone come se queste non avessero alcun peso, come se la soluzione al potere dominante fosse distruggere il potere stesso e dalle sue ceneri magicamente nascesse l’anarchia. Ma l’unico modo di creare un mondo anarchico è creare anarchici e anarchiche che vogliano quel mondo, ovvero l’unica cosa che a chi sostiene l’anarchia pare non interessare visto che parole come controinformazione, propaganda e attivismo sembrano non avere alcun peso.
È come se per questi anarchici il fine non fosse veder realizzata l’anarchia ma solo combattere frontalmente il sistema attuale, quindi rendendo la lotta non un mezzo ma il fine stesso, perdendo totalmente di vista le altre variabili e il vero scopo di liberazione delle masse dal giogo del potere, anzi, considerando queste ultime (se considerate) come nemici o come danni collaterali di un gioco che non le riguarda.
In questa visione pare che tutti nasciamo così e che nessuno possa cambiare. L’anarchico è nato anarchico, lo sbirro è nato sbirro e il re è nato re. Quel che siamo, siamo. Non possiamo cambiare nessuno. Le idee della maggioranza non ci riguardano, le persone che non la pensano come noi non vanno avvicinate e convinte ma considerate un nemico della libertà, non c’è pianificazione per il futuro ma solo la lotta che si può fare nell’immediato e quindi l’unica cosa da fare è distruggere quello che non è anarchico. Questa è una visione talmente miope e inefficace che non c’è da stupirsi se abbia finora solo racimolato dei sonori fallimenti.
Tutto questo ragionamento può essere facilmente trasportato in ambito antispecista: i macelli non esistono perché esistono i macellai, esistono perché esiste una maggioranza di persone che vede gli animali in un certo modo. Solo distruggendo quel modo di concepire gli animali si può davvero parlare di liberazione animale.

Se si propone di colpire frontalmente le istituzioni che propagandano e applicano materialmente il carnismo a monte (come lo stato stesso e le imprese che traggono beneficio dallo sterminio animale) nel tentativo di forzarle a smettere (piuttosto che concentrarci sulle persone che recepiscono quella propaganda), dobbiamo anche tenere presente che lo stato e i vari poteri in gioco sono emanazione delle azioni dei singoli. Con questo non si intende ingenuamente dire che quei poteri esistano ed agiscano democraticamente e che ci sia lo spazio e la possibilità di modificarli democraticamente seguendo gli iter dedicati creati dal potere stesso, ma si sta dicendo che sono emanazione dell’accondiscendenza, dell’obbedienza, del sostegno o disinteresse verso il potere stesso. I poteri non sono lì per magia, sono lì perché sostenuti dalla maggioranza. Non si può pensare di colpire la fonte della propaganda carnista come se il pubblico fosse un recipiente inattivo e non pensante che accoglie acriticamente quello che gli viene dato in pasto: questa è la visione che ha il potere della gente, una situazione che ha diretto interesse a mantenere così com’è. Ma se noi ci siamo ribellati alla visione carnista (come a quella statalista, sessista, razzista, ecc.) e lo abbiamo fatto non perché la propaganda per un attimo si è spenta o perché qualcuno l’abbia fermata, ma perché qualcuno si è speso per farci arrivare informazioni diverse che ci hanno convinto, allora noi siamo la prova che la realtà delle cose è un’altra e quei poteri sono lì solo in quanto versioni accettabili di una realtà, di un’idea di realtà nella mente dell’opinione pubblica. Non il contrario.

Non vogliamo assolutamente dire nulla sulla comprensibile tensione e sul trasporto che ogni attivista antispecista può sentire verso la liberazione diretta di un animale e, perché no, anche verso la vendetta verso coloro che causano dolore e morte al resto del vivente, però dobbiamo anche ragionare sulle implicazioni, non le nostre implicazioni ma quelle che coinvolgono gli animali e la loro definitiva liberazione.
Nei movimenti che contemplano le azioni dirette e violente pare invece che non esistano implicazioni, pare che la questione sia personale tra l’attivista che ha capito l’ingiustizia, la sua (sua!) necessità di salvare gli animali e i “cattivi” coinvolti in quella ingiustizia. Tutto il resto sparisce improvvistamente: non importa più come gli attivisti e le attiviste siano arrivati a capire l’ingiustizia (e quindi usare gli stessi mezzi per farlo capire ad altri), non importa chi sia il mandante dell’ingiustizia (e quindi la radice del problema), paradossalmente spesso scompare dall’equazione persino il soggetto animale (è capitato di imbattersi in gruppi attivisti pronti alla galera pur di intraprendere azioni dirette per la causa animale ma i cui membri non erano nemmeno vegani). Ci si basa quindi solo su una lettura puerile, autoreferenziata, dicotomica e, alla fine, disutile alla causa perché non tenere conto dell’effetto che le azioni hanno sull’opinione pubblica significa disinteressarsi della principale componente responsabile della tragedia animale.

Bisogna tenere presente che anche la stessa liberazione fisica di animali, la sensazione più bella che un antispecista possa provare e l’azione più alta che si possa fare per un animale in cattività, agli occhi della maggioranza rimane un semplice furto poiché quegli animali sono considerati cose e proprietà di qucriticaalcuno. Figuriamoci come possa essere letto l’arrecare danni a cose e persone.
Immaginiamo di essere antischiavisti all’epoca del colonialismo, quando le persone schiavizzate erano considerate alla stregua di bestie, meri attrezzi da lavoro di proprietà dei coloni. A mantenere vincolati gli schiavi e le schiave a quelle catene era l’idea diffusa, la convenzione e il pregiudizio che i più avevano nel loro riguardo. Se si fosse appartenuti ad un gruppo di “liberatori”, il liberare alcuni schiavi non avrebbe comunque fatto alcuna differenza nella questione dell’oppressione imperialista e tanto meno nella convenzione diffusa che vi fossero esseri umani con meno diritti di altri! Anzi: un atto di liberazione non sarebbe stato visto che solo come un illecito volto al danneggiare degli onesti proprietari terrieri da parte di persone con idee strane e sovversive. Nemmeno l’abolizione della schiavitù ha veramente liberato le persone dallo sfruttamento, a dimostrazione di come la vera radice del problema risieda nell’idea diffusa della legittimità della disuguaglianza, non nella legittimazione della schiavitù.
Allo stesso modo sperare che liberando un fagiano da un allevamento una persona possa capire che gli animali non sono oggetti è una fantasia che non vale nemmeno la pena prendere in considerazione.
Eppure cosa pensa la maggioranza dovrebbe essere una delle massime priorità di qualsiasi attivista. Il fatto che questo venga dimenticato in ambito anarchico e antispecista ha un amaro sapore elitario e borghese.

L’amnesia è talmente profonda e l’azione diretta e violenta può diventare talmente tanto un dogma che la questione viene ribaltata: chi critica, anche argomentando, questo tipo di approccio viene bollato come una persona che allora non vuole fare niente, in preda alla codardia, che non si vuole sporcare le mani o che non ha abbastanza a cuore la causa. Se è chiaro, come già detto, che colpire il singolo vivisettore o il prosciuttificio ha un limitato effetto pratico, un valore simbolico praticamente nullo, se è palese che minare l’ideologia alla base dell’ingiustizia è uno dei punti focali della nostra lotta, allora avanzare l’idea che criticare le azioni dirette che non abbiano un solido e comprensibile significato per le masse porti al “non fare nulla” è una prova schiacciante di quanto questo modo di intendere l’attivismo rischi di condurci completamente fuori strada e possa diventare solo una specie di crociata fumettistica, omerica, a volte machista, dove chi non partecipa è vile, dove la galera è un vanto, dove tutto è sacrificabile, dove non c’è alcuna strategia ed esiste solo l’attivista buono e i cattivi da combattere con tutti i mezzi necessari… insomma un qualcosa che, alla fine, a volte è un vero “non fare nulla” se non addirittura un “fare peggio di nulla”.

L’idea risultante da questa visione fallace della lotta è quella che se non si applica l’azione diretta e violenta allora si stia attuando una forma di collaborazionismo con lo status quo oppure che si faccia parte di quella frangia perbenista e lealista dell’attivismo non radicale che spera “nel meno peggio”, ovvero in più ristoranti vegani, più scelta di prodotti di origine non animale al supermercato, fino alla richiesta di allevamenti più etici e cose simili.
Chi sta scrivendo questo articolo ripugna completamente questo modo di intendere l’attivismo antispecista, noi crediamo nella liberazione totale degli individui animali senza mezze misure e crediamo fermamente anche in un antispecismo intrinsecamente intersezionale, contenitore di tutte le altre lotte, in automatica antitesi anche, ad esempio, con il capitalismo dei prodotti veg, il sessismo, il razzismo, lo statalismo, la tecnocrazia, ecc.

Anche il pacifismo e la nonviolenza vengono spesso additati come un male, come un peso, come un retaggio moralista, religioso, un danno verso la causa, una forma di collaborazionismo verso il potere.
Sia chiaro che per nonviolenza non si intende trasformarsi in santoni e seguire, nella vita di tutti i giorni, la filosofia del “porgere l’altra guancia” o accettare passivamente le ingiustizie. Cosa sente e cosa fa ognuno davanti alle situazioni che capitano nella vita non è materia di dibattito. Una cosa è fare filosofia e giudicare uno specifico atto di violenza, ben altra cosa è capire se quell’atto possa rappresentare una strategia efficace per uno scopo oppure no. Qui infatti non stiamo giudicando moralmente le azioni dei singoli, stiamo invece parlando di strategie politiche da applicare nell’ambito di una lotta progettuale e organizzata.
In questo senso la nonviolenza è una precisa forma di attivismo che è tutt’altro che passiva, è una strategia molto proficua, intelligente, solida, coraggiosa, che non ammette risposta alle provocazioni di nessun genere, anzi, sfrutta quelle provocazioni trasformandole in propaganda politica a proprio vantaggio perché mette sempre in chiaro chi stia prevaricando chi, evitando strumentalizzazioni, portando lo scontro con le autorità su un piano vantaggioso che ci può permettere di assestare duri colpi allo status quo (piuttosto che agire sul piano della forza su cui non si può vincere né praticamente né mediaticamente). Per pacifismo invece intendiamo semplicemente avere come obiettivo la pace cioè la fine di situazioni di tensione e scontro.

Bene, noi non solo pensiamo che giudicare pacifismo e nonviolenza nel modo negativo descritto in precedenza sia un errore, ma sosteniamo anche che questi due elementi siano più che utili, diremmo necessari. Necessari perché per prima cosa servono a schivare qualsiasi attacco frontale del potere ancor prima che questo abbia le motivazioni sociali e politiche di attuarli visto che la prima scusa che serve a un potere per schiacciare i movimenti è proprio quella delle azioni violente o illegali perpetrate da questi ultimi: quindi più un movimento riesce a mantenere un aspetto “pulito” e meno il potere avrà scuse per attaccarlo direttamente o attraverso la propaganda.
Secondariamente mantenere un approccio pacifico e nonviolento aumenta in maniera drastica l’efficacia della comunicazione e della divulgazione verso la maggioranza ovvero il punto centrale di questa lotta.
Basterebbe citare il caso di Unabomber (Theodore Kaczynski) per comprendere questo aspetto: un essere umano che ha tentato di divulgare una delle critiche più radicali alla società civile, persona di una intelligenza e preparazione che ben pochi hanno, con alle spalle un manifesto più o meno condivisibile ma sicuramente articolato, brillante, pungente… però ricordato oggi solo come un pazzo maniaco omicida che metteva bombe esattamente come tutti gli altri “unabomber” venuti dopo di lui che non avevano alcuna motivazione politica alle spalle ma solo il vezzo di far saltare in aria cose e persone. Le bombe che Unabomber ha usato per far ascoltare il suo messaggio sono state le stesse armi che hanno zittito la sua voce, aggiungendo anche un tassello in più al luogo comune che i dissidenti sono pericolosi e vanno fatti tacere.
Anche quando le azioni dirette sono accompagnate da una forte motivazione politica alla base, è prassi comune che le autorità operino una loro depoliticizzazione: attraverso la propaganda, il potere svuota le azioni del loro contenuto politico, mostrando alle masse solo il loro lato violento. Questa prassi non dovrebbe indurci a fare del vittimismo e perseverare ciecamente in quel senso senza curarci di quello che arriverà come messaggio al resto del mondo ma, proprio perché questo problema esiste da sempre e purtroppo funziona molto bene per le autorità, dovremmo sempre tenerlo ben presente ed evitare di mostrare il fianco a facili strumentalizzazioni. Paradossalmente chi fa un discorso del genere spesso viene giudicato come un collaborazionista lealista, quando in realtà stiamo parlando di una banale e doverosa presa visione di una palese situazione con lo scopo di aggirarla, proprio per non fare il gioco del potere.

Abbiamo sentito spesso associare all’approccio nonviolento l’accusa di usufruire di un privilegio in quanto la nonviolenza è vista come una comodità che si può permettere solo chi non è oppresso direttamente, chi non è vicino agli individui oppressi (fisicamente, politicamente o empaticamente) e quindi non sente su di sé la necessità impellente di far cessare quell’oppressione con qualsiasi mezzo, anche appunto con la violenza.
A nostro parere quest’idea è molto fallace. Per prima cosa l’idea di poter rifiutare la propria condizione di privilegio e “sentirsi come gli oppressi” è una fantasia che rifiuta la realtà delle cose e assomiglia tanto a un uomo bianco e ricco che pretende di sentire dentro di se l’oppressione della povertà e degli immigrati. A spingere chi crede negli ideali anarchici e antispecisti (come qualsiasi altra persona) a combattere le disuguaglianze è proprio, in prima istanza, prendere atto di quelle disuguaglianze e, di conseguenza, riconoscere il proprio status privilegiato.
Secondariamente, una volta preso atto del proprio privilegio, sarebbe assurdo tentare di metterci una pezza cercando di sentirsi e soprattutto agire come chi non lo è, piuttosto sarebbe saggio usare strategicamente quel privilegio per organizzare una reazione all’oppressione in modo progettuale e intelligente, cosa che gli individui oppressi direttamente difficilmente possono fare.
Sarebbe come se una folla in preda al terrore per un incendio stesse scappando in tutte le direzioni. In questo contesto sarebbe comprensibile che, in preda a quella tensione per salvare se stessi, si arrivasse anche a calpestare chi cade o si usasse violenza contro altri: la situazione potrebbe richiederlo. Immaginiamo che un individuo stia osservando la scena da un balcone, in salvo, e cercasse di gridare istruzioni alle persone nel panico per calmarle e indicare la strada giusta per salvare più vite possibile. Sarebbe assurdo che un’altra persona, da un altro balcone, criticasse l’agire dell’altro individuo perché frutto di un privilegio, suggerendo anche che è facile parlare di calma e direzioni da prendere visto che si trova in salvo sul balcone, aggiungendo infine che per non essere ipocrita dovrebbe ragionare sul da farsi sentendo sulla sua pelle il calore delle fiamme e la stessa paura di quella gente. Ovviamente questo suggerimento è impossibile da seguire nella pratica ed è una critica assurda a livello logico perché controproducente.
Ecco, in parole povere chi ha questa visione della nonviolenza rifiuta l’enorme vantaggio di avere una visione lucida, al netto di una situazione di diretto pericolo, solo per una questione puramente filosofica e fallace.

Il fatto che il pacifismo e la nonviolenza dei movimenti dissidenti siano tutt’altro che utili al potere dovrebbe essere lampante anche solo pensando a una strategia molto usata dal potere stesso ovvero l’infiltrazione di agenti sotto copertura: non ci risulta che gli infiltrati nei movimenti vadano lì a predicare il pacifismo per disinnescare le loro azioni, anzi, ci risulta il contrario. Il potere infiltra i movimenti proprio allo scopo di indirizzarli verso azioni violente. Quindi non sembra che l’uso della forza e della violenza sia qualcosa che il potere teme, che non sappia gestire o che lo colga impreparato, anzi, pare sia quello che auspica, al punto da agire perché quel tipo di azioni vengano messe in pratica quando assenti. Detto questo, se si parla di collaborazionismo col potere o addirittura di “utili idioti”, viene da chiedersi chi faccia davvero il gioco del potere tra un movimento che riesce a fare attivismo senza essere attaccato frontalmente, alla luce del sole e senza mostrare il fianco alla propaganda rispetto ad un altro che invece fornisce tutti gli elementi utili al potere per essere tartassato, denigrato, allontanato dalle masse e costretto a fare attivismo dal buco di una serratura.

Questo articolo non ha lo scopo di “fare la morale” all’attivismo, anzi, si sta cercando di fare un discorso opposto che prenda in serio esame le premesse e conseguenze, i costi e i benefici relativi ad azioni di attivismo, senza dare letture di tipo etico o moralista. Per questo specifichiamo che non si vuole decantare un sistema di regole comportamentali che vietino l’uso della violenza in maniera dogmatica in qualsiasi caso a prescindere dal contesto.
Per prima cosa questo articolo suggerisce solo dei ragionamenti su cui riflettere e che si spera possano dare un contributo sulla scelta delle azioni e delle strade da intraprendere per l’attivismo antispecista, secondariamente è proprio il contesto ad essere importante e quindi diventa imprescindibile avere una lettura chiara dello scenario in cui ci si sta muovendo perché la scelta dell’azione da intraprendere sia più efficace possibile.
Se io mi trovassi di fronte a 4 energumeni che stanno picchiando un animale, è chiaro che non si sta sostenendo che in questo caso sarebbe necessario e utile ricorrere al dialogo rifiutando un’azione diretta o violenta anche a costo di vedere l’animale massacrato davanti ai nostri occhi. Questo caso, preso come esempio, non è nemmeno descrivibile come scenario dove si attui dell’attivismo: stiamo parlando di un contesto diverso che richiede una responsabilità davvero individuale e personale tra l’ingiustizia che ci si para davanti e la persona che la vuole evitare, uno scenario in cui ogni individuo prenderà una decisione basata su tantissime componenti diverse e assolutamente variabili di tipo etico e di tipo pratico (come ad esempio se ci sono altre persone presenti a cui chiedere aiuto, il proprio stato di salute ed energia nel caso si debba affrontare fisicamente qualcuno, avere con se un minore che potrebbe essere coinvolto in una rissa, ecc.) Tutto questo riguarda singolarmente i soggetti coinvolti in quello specifico momento, in quel contesto, ed è uno scenario che non ha nulla a che fare con l’attivismo che invece dovrebbe riguardare l’organizzazione pianificata e intelligente di un percorso di lotta politica che porti dei risultati a livello globale. Sarebbe assurdo usare degli scenari come quello descritto, che non c’entrano nulla con l’attivismo, come bussola per giustificare o corroborare azioni da intraprendere come forma di attivismo.

Qui non si tratta di spaccare il capello, non si tratta di dividerci invece di unirci, di avere l’arroganza di ergersi a giudici su cosa si debba o non debba fare, non è una mera questione filosofica che discutiamo davanti a un tè mentre gli animali vengono sgozzati e noi “non facciamo niente”: individuare la vera causa dei problemi e come risolverli alla radice con il metodo più efficace è un ragionamento necessario e dovuto soprattutto proprio nei confronti di chi subisce le ingiustizie e non ha voce in capitolo, è l’unico approccio serio per vedere finire gli orrori contro cui lottiamo, vederli sparire davvero e per sempre, senza rischiare che continuino a serpeggiare subdolamente sotto altre forme solo perché avevamo fretta di “fare qualcosa”.

Come già detto, il vero terreno di gioco è la mentalità della maggioranza e il modo di questa di vedere gli animali.
Possiamo far chiudere quante aziende vogliamo, intimidire tutti i vivisettori del mondo, distruggere tutte le gabbie… Il giorno dopo ce ne saranno altrettanti.
Questo a meno che non si riesca a fare appunto un lavoro politico di destrutturazione delle masse e della loro idea di animale. Un lavoro che sì, può essere fatto anche assieme ad azioni dirette e violente, ma sarebbe assurdo giocare su entrambi i fronti se il secondo rema contro al primo. Non si può pensare di fare azioni politiche di propaganda mentre dall’altra parte con le azioni violente si allontanano le persone comuni dalle ragioni antispeciste, si regalano tutti gli appigli ideologici possibili ai carnisti per rimanere tali e si fomentano i luoghi comuni negativi sull’attivismo antispecista. In altre parole, uno dei principali motivi per cui molte persone si attivano sul fronte diretto e violento senza curarsi delle conseguenze politiche è che non c’è il tempo di aspettare che la mentalità della maggioranza cambi e c’è l’urgenza di “fare qualcosa”, ignorando però il fatto che magari i tempi di quel cambiamento sono allungati proprio dalle azioni che allontanano le persone e succhiano le energie della già esigua rappresentanza antispecista. Insomma un circolo vizioso.
Inutile che ci si lamenti che il dibattito dell’opinione pubblica sia ancora fermo al giudicare l’anarchia come caos e gli animalisti come nazivegani. Sarà inutile finché si riterrà superfluo parlare alle masse e si riterrà invece proficuo lottare frontalmente con un potere che la maggioranza ritiene sia ordine, normale e buono.
Inoltre aggiungiamo anche che comunque non dovrebbe importare quanto tempo occorre ad ottenere un risultato: se sai che qualcosa è giusto e sai che quella è l’unica azione risolutiva che va alla radice, va fatto. Punto.

Un’altra cosa che ci siamo sentiti spesso dire è che cambiare la mentalità delle persone, sì, sarebbe l’ideale, ma tanto “le persone non le cambi”.
Sentir dire questo da chi si impegna nell’attivismo è la cosa più triste e tragica che possa capitare di ascoltare. Ritenere che le persone non cambino rappresenta la morte dell’attivismo, ne è proprio l’antitesi oltre che essere un ossimoro in termini considerando che l’attivista è, di fatto, una persona che è cambiata e vuole cambiare le cose.
Se si accetta per dato di fatto che le persone non cambiano, quale ragione ci sarebbe di fare attivismo? Per cambiare le cose? E si può cambiare le cose senza cambiare le persone?
Le persone sono le uniche cose che cambiano e sono loro che fanno cambiare le cose, non certo il contrario. Cambiare le persone è l’unico modo di far cambiare le cose e riteniamo che chi non capisce questo non sia nemmeno definibile con la parola “attivista” oltre che essere purtroppo destinato a fallire.

Il sistema in cui viviamo si regge su una trama di credenze, come un sistema religioso: le persone lo sostengono giorno dopo giorno perché ci credono o semplicemente perché è così, perché è normale. Pensare di agire per cambiare il sistema danneggiando o distruggendo chi esegue materialmente le ingiustizie (scambiati per simboli nell’errore di attribuzione spiegato poco sopra) sarebbe come pensare di far finire il cristianesimo minacciando i preti, distruggendo i crocefissi o impedendo lo svolgimento delle messe. Al limite, se le forze in campo sono sufficienti, si potrebbe imporre un clima di terrore talmente efficace da far smettere le persone di praticare il cristianesimo. Ma è quello che vogliamo?
Per fare un esempio, nonostante siamo la minoranza, immaginiamo di riuscire a minacciare tutti i vivisettori del mondo (già assurdo, ma proviamoci) e che nessuno, per paura, pratichi più la vivisezione. La vivisezione finisce. Immaginiamo il dispiegamento di forze necessario per minacciare tutti i vivisettori dappertutto, la rete di persone impiegate nelle minacce, lo sforzo per non essere scoperti… E ora immaginiamo tutto questo moltiplicato per tutti i settori che implicano lo sfruttamento e la morte animale. Già potrei fermarmi qui, ma andiamo avanti: immaginiamo che la nostra minaccia sia così capillare e potente da far finire tutte le angherie contro gli animali. Che cosa avremmo? Un mondo in cui una maggioranza di persone continua a vedere gli altri esseri viventi come cose, come oggetti, che però non riesce a perpetrare violenza sugli animali perché una minoranza li tiene sotto costante minaccia di violenza o morte… Non so a voi, ma a noi questo, oltre ad essere una baggianata irrealizzabile per ovvie ragioni pratiche, anche quando fosse attuabile, pare tragicamente simile a uno stato di polizia, cioè l’antitesi del pensiero libertario.

Anche se evidente da quanto scritto finora, è importante specificare che non si vuole portare una critica generalizzata e tout court all’azione diretta. Non avrebbe alcun senso. Ogni singola azione va soppesata e valutata rispetto alle conseguenze pratiche e politiche di cui si è fatta menzione all’inizio di questo articolo. Per fare un esempio, anche se sono entrambe azioni dirette, fermare un camion colmo di maiali agonizzanti per lo stress mostrandone le immagini alle persone sarà mai paragonabile al pestaggio di un macellaio in un vicolo buio? Sdraiarsi davanti l’ingresso di un mattatoio e lasciarsi trascinare via può essere messo sullo stesso piano del dissotterrare il parente morto di un vivisettore per intimidirlo (atto veramente citato su materiale che promuove le azioni dirette, e non per condannarlo)?

Altra cosa da specificare, a costo di sembrare didascalici ma per evitare qualsiasi fraintendimento, è che non si sta proponendo di rimanere obbligatoriamente nella legalità, anzi, il dissenso e la resistenza anche verso la legge sono azioni spesso fondamentali. L’unico discrimine è sempre e comunque che queste azioni siano comprensibili alla maggioranza. Se l’azione diretta riesce a rappresentare un messaggio comprensibile alle masse e quindi avere un valore simbolico, più questo messaggio arriva, è fruibile e meno lo si rende attaccabile e condannabile, più quell’azione sarà utile alla causa. È ovvio che il messaggio deve essere strutturato nell’azione stessa e non separato: non è che allegando un efficace comunicato stampa alla detonazione di un ordigno a casa di Giovanni Rana si rende questa azione utile e comprensibile.

Allora, alla luce di questi ragionamenti, considerati tutti gli aspetti dell’azione diretta e soprattutto violenta in ambito antispecista, questa spesso risulta essere un modus operandi che dà limitati risultati pratici, dispendioso, pericoloso, spesso controproducente, che non va alla radice, autoreferenziale e perpetuatore della mentalità del dominio, che tende ad ignorare la componente essenziale della lotta per la liberazione animale: le persone e il loro modo di vedere gli animali.
L’unica liberazione possibile, non importa quanto lenta, quanto faticosa, quanto meticolosa, potrà avvenire solo smettendo di vederci come la minoranza in guerra contro i cattivi, ma piuttosto cercando di avvicinare le persone alla nostra causa dialogando, facendo propaganda, scrivendo, parlando, cantando, urlando, con la forza della ragione, facendoci ascoltare, essendo d’esempio, facendo vedere alle altre persone quello che abbiamo visto noi perché è grazie a queste cose che chi è antispecista ha scelto di esserlo.
Del resto, anche tu che leggi, non hai abbracciato la causa antispecista così?

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