LA FAVOLA DELLA CADUTA

Alla luce di quanto sta avvenendo in generale nel mondo accademico, ossia un radicale cambio di vedute sulla narrazione sinora avvenuta della storia dell’Homo Sapiens e delle sue “conquiste” in epoca Neolitica, sfatiamo oggi un mito nel quale siamo cresciuti e che ha avuto il potere di suggestionare e addomesticare le nostre coscienze per secoli. Così scienza, antropologia, biologia, archeologia, genetica e paleo-archeologia si devono piegare alle loro stesse nuove rivelazioni, resettando antiche e consolidate credenze.

Le ultime scoperte in campo archeologico, le ultime osservazioni in campo antropologico e genetico convincono sempre più della necessità di una revisione radicale sia della fase della costruzione degli Stati e dei primi proto-Stati, sia della fase che passava tra l’uno e l’altro tentativo. Si, perché di tentativi si è trattato, tentativi che sono andati avanti, a fatica, per millenni e che invece ci sono stati sempre narrati come realtà che una volta consolidate erano efficaci e stabili, e che i crolli di queste provocavano irrimediabilmente catastrofi e morte.

Gli studi del Professore di Scienze Politiche e antropologo all’Università di Yale James C. Scott e del Professore all’Università di Austin, antropologo, genetista Spencer Wells, nonché di Begun, antropologo, genetista, paleoarcheologo Professore all’Università di Toronto, di Lieberman, Marvin Harris, Ian Tattersall, Richard Wrangham, e molti altri ancora, convergono tutti nella stessa direzione:

La vita al di là delle “mura degli Stati” e dunque della civiltà era migliore.

Nonostante forme sporadiche di stanzialità fossero praticate già nel Paleolitico, fatto dovuto a particolari condizioni legate ad un territorio eccezionalmente variegato (e che dunque offriva forme abbondantissime e varie di sussistenza), l’egualitarismo, la convivenza pacifica, l’assenza di attriti sociali, la condivisione, l’armonia con il territorio circostante e con ogni forma di vita restavano le caratteristiche portanti delle comunità di Homo Sapiens, esattamente come avveniva nelle comunità di Sapiens nomadi che praticavano abitualmente raccolta e piccole ed occasionali battute di caccia.

Dunque solo la presenza di forme di sussistenza estremamente variegate permetteva rari fenomeni di stanzialità, per il resto, la nostra specie ha sempre preferito il nomadismo, anche fino a pochissimo tempo fa, in quanto questo “modulo” permetteva al territorio di rigenerarsi dalla raccolta, e permetteva di usufruire con sicurezza di cibo variegato e abbondante.

Concentrandoci sulle zone del pianeta nelle quali i gruppi erano più numerosi a fronte della presenza di queste condizioni particolari di varietà di cibi, quindi Asia sud orientale, Sud America, Nord America, Mezzaluna Fertile (Mesopotamia), le indagini più recenti ci raccontano un’altra storia. Una storia che dipinge un difficilissimo, graduale, e lentissimo processo di domesticazione degli animali, delle piante, del territorio e infine dell’uomo stesso.

Quindi nonostante la comparsa delle primissime forme occasionali di stanzialità, di semina occasionale di cultivar – piante selvatiche in grado di essere seminate – (che avvenne per lo più sulle rive del Fiume Giallo in Cina e nella parte meridionale della Mesopotamia, grazie a terreni fertili e löss dovuti alle esondazioni dei fiumi) e di arcaiche e sporadiche forme di domesticazione animale, passano, dopo i milioni di anni di puro nomadismo, ancora più di quattromila anni di vita in perfetta armonia con l’ambiente prima della formazione dei proto-stati più stabili.
Persino le condizioni di salute dei cacciatori-raccoglitori rispetto a quelle degli Homo Sapiens domesticati alla civiltà, osservate grazie agli ultimi ritrovamenti archeologici, ci raccontano qualcosa di straordinario: la condizione di salute generale dei cacciatori-raccoglitori nomadi, dalle carie dentali alla forza e alla resistenza fisica, dalla reattività agli stimoli alla capacità di adattamento, dall’altezza del corpo alla composizione ossea, è decisamente migliore rispetto a quella di chi visse, all’inizio in modo coercitivo in ambienti sovrappopolati, insani, in cui parassiti, batteri e virus e nuove malattie e pandemie si sviluppavano anche in modo inter-specie, da piante ad animali, da animali a Homo Sapiens.
L’effetto della domesticazione sugli animali ad esempio fu sconvolgente: nel giro di pochissime generazioni, il vivere stipati, fermi, addomesticati cambiò il loro assetto non solo comportamentale ma persino biologico e fisiologico (riduzione delle dimensioni delle scatole craniche, inibizione dell’amigdala, assenza di corna, diminuzione di peso e stazza, diminuzione di risposta agli stimoli, ecc.), fatto dovuto alla non necessità di doversi procacciare cibo, di dover combattere per l’accoppiamento e di doversi difendere dai predatori. Persino le specie a convivenza parallela come parassiti, uccelli e ratti subirono l’effetto della domesticazione recando significative variazioni sia a livello fisico che di comportamenti. Un aspetto fondamentale da notare fu l’aumento significativo e sconvolgente della fertilità di tutte le specie sottoposte a stanzialità, anche nelle femmine di Sapiens nel giro di pochissime generazioni. Ciò determinò che, nonostante le peggiorate condizioni di salute e l’aumento di mortalità si poté contare su un bilancio positivo di vite in generale. L’essere umano femmina divenne “fattrice” di forza lavoro. L’essere animale femmina divenne “fattrice” di mandrie.

<<Recenti ricerche indicano che all’epoca della sua prima introduzione l’agricoltura (arativa ndr) non doveva essere economicamente vantaggiosa: la produttività dei primi agricoltori (ossia le calorie per ogni ora di lavoro incluso il trattamento e lo stoccaggio degli alimenti) era probabilmente inferiore – e in misura significativa – a quella dei cacciatori-raccoglitori. Vi sono infatti prove che in molte parti del mondo, la statura e lo stato di salute delle popolazioni sembrano essere diminuiti con l’avvento delle coltivazioni. […] E’ stata l’introduzione di diritti di proprietà che tutelavano raccolti e bestiame a permettere la diffusione dell’agricoltura (arativa ndr). La produttività dei gruppi di cacciatori-raccoglitori – che praticavano la condivisione comunitaria delle risorse – era infatti significativamente più elevata rispetto a quella dei primi agricoltori. >>. (Da LeScienze: La stretta coevoluzione di agricoltura e proprietà privata. Studio condotto da Samuel Bowles del Santa Fe Institute e Jung-Kyoo Cho della Kyungpook National University a Daegu, in Corea)

Un imponente cambio di paradigma è attribuibile al Dryas Recente ( 10800 – 9600 a.C.), un cambiamento climatico che fece perdere gran parte dei territori in grado di garantire sussistenza variegata, e costrinse i gruppi nomadi a ‘’partecipare’’ forzosamente alla sussistenza, iniziando a ‘’lavorare’’ la Terra, ad ararla, seminando cultivar sempre più selezionati, tanto da aumentarne le rese, e questo determinò la necessità di azioni sempre più artificialmente cadenzate (trascendendo quel ritmo naturale che ci aveva accompagnati per milioni di anni). L’agricoltura arativa, segnava così lo spartiacque tra Paleolitico e Neolitico, divenendo forma di sussistenza diffusa intorno ai 10.000 anni fa.
La presenza di cereali coltivati, divenne motivo di aggregazioni maggiori, di diversificazione delle mansioni lavorative, di compresenza di animali e uomini a strettissimo contatto e di quella stanzialità che segnò il confine tra libertà e Stato.
<<Fu solo quando iniziarono a diffondersi nuovi e più ampi diritti di proprietà – che permettevano ai gruppi che avevano deciso di dedicarsi alla coltivazione e all’allevamento di non condividere raccolti, bestiame e case stabili – che l’agricoltura iniziò ad avere maggiori opportunità di affermarsi>>(Da LeScienze: La stretta coevoluzione di agricoltura e proprietà privata. Studio condotto da Samuel Bowles del Santa Fe Institute e Jung-Kyoo Cho della Kyungpook National University a Daegu, in Corea).

Quando i proto-stati presero forma, quando cioè si iniziò a produrre, contare, controllare ogni cosa, nonostante la presenza di forza lavoro cerealicola e di “femmine fattrici”, fu necessario procurarsi anche dall’esterno la materia prima affinché questa nuova formula sociale sopravvivesse a se stessa e alla sua caducità: la forza lavoro umana. Razzie di esseri umani a danno di villaggi nomadi attigui divennero sempre più frequenti. Per poter “contenere” la forza lavoro cerealicola, i proto-stati e successivamente le loro forme più complesse, gli Stati, dovettero adottare formule coercitive di trattenimento: le Mura. Raccontateci da sempre come strumento di difesa dalle aggressioni esterne, le mura di questi stati primordiali servivano al contrario più a tenere all’interno i prigionieri-lavoratori, che continuamente, e giustamente, si ribellavano e tentavano fughe. L’affermazione della forma statale e dunque della tanto decantata ‘’civiltà’’ ha dovuto faticare, schiavizzando, percuotendo, uccidendo e trattenendo forzosamente il suo ‘’capitale’’ umano e questo braccio di ferro tra sottomissione al dominio e vita libera e naturale è durato millenni. La liberazione dagli stati era una forma di emancipazione per i contadini tassati e vessati e i lavoratori schiavizzati, non una perdita.
Non si trattò dunque di una “conquista di civiltà” ma di una “razzia di libertà”.

La massiva dispersione del capitale umano significava caduta dello stato e dunque la perdita del privilegio di non faticare per le élite che lo governavano. Piccoli stati nascevano e crollavano nell’arco di pochi secoli. Ma tutto ci si concedeva pur di scongiurare tale disgrazia! La violenza divenne rapidamente il metro per catalogare la forza di uno stato, non la sua prosperità in termini di raccolto, pietre preziose, legname, bestiame, ma la sua capacità di trattenere a se i lavoratori, i contadini, gli schiavi nelle cave. Il famoso codice di Hammurabi, solo per citare uno dei tanti esempi, è pregno di punizioni per chi si allontanava dalle mura della città.

Di pari passo, soprattutto attraverso vie d’acqua, i commerci, anche e soprattutto con i nomadi fuori dalle mura diventavano sempre più consueti. Fu così che i nomadi, che continuavano a vivere liberi nonostante accanto ad essi la civiltà avesse già iniziato a fagocitare con la sua violenza territori, acque, terreni, animali e uomini, videro al pari di una mandria che migrava o di un frutto disponibile l’opportunità di prendere ciò che era lì, stoccato e a disposizione. Iniziarono le razzie a spese dei primi agglomerati statali. Razzie veloci, poco sanguinarie, a volte diventavano per i contadini un’opportunità di fuggire dalle tasse, dal controllo e dalla violenza dello stato e quindi di tornare alla libertà. Tali dinamiche costrinsero i governanti a cercare di stringere “accordi” con le tribù nomadi, in cambio di garanzia di pace e di qualche materia prima lavorata come tessuti, cereali, ecc. Dover interloquire con qualcuno rese necessario definire presto la figura di “capo” delle tribù, fu così che l’autorità e la gerarchia si insinuarono e cancellarono gradualmente la parità e l’armonia, fino a concepire la possibilità di rapire nomadi vicini per consegnarli come merce ai regnanti di turno. I nomadi divennero dolorosamente “gemelli oscuri” degli stati.
Queste dinamiche dunque fecero assimilare ai nomadi sempre più frequentemente il paradigma del dominio e del ragionamento speculativo nei confronti della Terra, distruggendo lentamente la capacità di vivere in armonia con essa facendone semplicemente parte e generarono il seme del terrore politico al fine di trarre maggior profitto da ogni situazione, replicando il “modulo” dello stato in fatto di organizzazione e violenza.

Per millenni, gli stati sono “caduti’’, gli imperi sono “caduti”, ma nessuno sino ad oggi ha raccontato cosa accadeva alle genti rimaste lì. Per questo, le lunghissime epoche intermedie tra la formazione di uno stato e l’altro, vengono definite ‘’Secoli bui” o “Epoche buie”. Ma il buio cui ci si riferisce è solo quello accademico: gli stati producevano enormi quantità di dati che sono arrivati a noi, pietre, conglomerati stabili, tavolette contabili, codici comportamentali. Il racconto archeologico del momento delle “cadute” ci arriva, ma si ferma lì. Cosa accadeva dunque dopo le “cadute”? I nomadi, al contrario degli stanziali statalizzati, non ebbero mai bisogno di contare e registrare nulla, i loro rifugi erano biodegradabili e leggeri. La vita dei raccoglitori-cacciatori era sufficiente a se stessa nella sua semplicità. Rifiutarono lungamente e con forza l’adozione della scrittura, ritenendola inutile o peggio assimilabile al controllo esercitato dagli stati. Dopo, quindi, i contadini e gli schiavi tornavano liberi, aggregandosi in piccoli gruppi nomadi che garantivano sussistenza abbondante e vita egualitaria, in un respiro di libertà che ricominciava ad accorciarsi man mano che uno stato si rigenerava all’orizzonte. Anche di fronte a cadute degli stati per catastrofi o pandemie, appare logico osservare che la fuga e la dispersione in piccoli gruppi nomadi garantisse nell’immediato la speranza di sopravvivere.
La mancanza “archeologica” di queste tracce quindi ha messo al buio interi millenni di storia, che solo ora, attraverso le moderne tecniche di rilevamento, attraverso moderne mappature di DNA, attraverso nuove letture ed osservazioni antropologiche stanno venendo a galla, richiedendo l’onestà intellettuale accademica di riconsiderare per difetto tutta la gloria affibbiata alla civiltà a causa di una miope e unilaterale lettura di ciò che era giunto a noi in modo più tangibile.
Di fatto, l’affermazione degli Stati è avvenuta a fatica, lentamente, attraversando millenni di reticenza, di diffidenza, di rimostranza, è stata possibile solo attraverso la violenza divoratrice delle realtà contigue, la ruralizzazione è stato un fenomeno ben più diffuso dell’urbanizzazione per interi millenni. Solo dopo il 1600 a.C. gli stati e persino gli imperi assunsero forme leggermente più durature ma ancora le loro continue “cadute” e i successivi periodi di prosperità, di armonia e di libertà (che solo ora iniziano ad essere doverosamente raccontati), dovrebbero farci chiedere se la “conquista” della realtà “civilizzata” che stiamo vivendo non sia una discutibilissima e orribile forzatura della nostra vera natura che finirà per massacrare noi stessi e il pianeta tutto.

Fonte: CriticaRadicale

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